Un petto di pollo ed una insalata. Il tutto annaffiato con una bottiglietta d’annata di… acqua, ovviamente naturale. Bisogna ammetterlo: ogni volta che andavi a pranzo o a cena con Daniele Nardi, il piatto forte del menu non era certo quello che potevi concederti a tavola.
Era capitato anche quella sera: c’eravamo dati appuntamento con Daniele, e un altro collega giornalista che da sempre seguiva con attenzione gli sviluppi della sua carriera alpinistica. “Così finisco l’allenamento, ci facciamo una chiacchierata e poi andiamo in centro a mangiare qualcosa!”, mi aveva detto, come spesso capitava. Sapevamo entrambi che quella era solo una piccola, innocente bugia: l’allenamento si sarebbe protratto più del previsto (o comunque più di quanto aveva detto a me…), di andare in centro nessuno dei due aveva poi così tanta voglia, e allora saremmo di sicuro rimasti a consumare quella cena ‘francescana’ imposta dalla ferrea determinazione del mio amico, “Perché ho preso qualche etto, e questo è invece il momento di entrare in perfetta forma. Poi magari un chiletto me lo concederò in vista della partenza per il Nanga Parbat, visto che laggiù al campo base il freddo consuma tutte le energie…”. Pochi istanti, quindi, per consumare il rapido pasto; un paio d’ore, poi, di chiacchiere, risate, racconti, aneddoti, scherzi (e anche, e per fortuna una birra fresca!).
Era quello infatti il piatto forte di ogni incontro con Daniele: ascoltare la sua voce, vedere la luce e l’entusiasmo che ne illuminavano gli occhi, seguire le sue mani mentre disegnavano nell’aria il profilo della montagna, poi il posizionamento dei vari campi d’ascesa, e infine la linea – mai neppure intuita da altri prima di lui – che avrebbe seguito per risalire lo Sperone Mummery. “Ragazzi, io devo andare a casa: si chiude!”: solo il tono perentorio usato dal barista riuscì a farlo smettere di parlare, di descrivere. Di sognare.
Ho ripensato (anche) a quella sera quando, sabato 9 marzo, ho visto per la prima volta la foto che ritrae le sagome, i corpi di Daniele e Tom Ballard, schiantati vicino a campo 4, intorno a quota 6mila metri, sul Nanga Parbat, anzi proprio su quello Sperone. Perché se è vero che più infinite volte l’aveva sognata ad occhi aperti, quella via dritta e diretta che passando di lì sembra quasi già indicarti la strada verso la vetta, niente di più diverso dal sogno di un folle era il modo in cui Daniele aveva preparato non solo questa, ma tutte le sue cinque campagne sul Nanga Parbat. Se visione c’era, non era quella dell’esaltato a tutto disposto pur di centrare il proprio obiettivo; piuttosto, quella dell’esploratore, di colui che progetta, disegna, architetta, per aprire spazi ignoti e sconosciuti fino a quel momento a se stesso e agli altri. E la bontà delle sue intuizioni, anche e soprattutto su quello Sperone, è stata drammaticamente confermata anche dalle relazioni di quegli alpinisti che, in questi giorni amari, si sono affannati per ritrovarne le tracce su quel versante del Nanga Parbat.
“[…] A ogni metro che percorri devi aver sempre ben chiaro in testa che è la montagna che conduce il gioco. E’ lei che detta regole e princìpi. Tu t’inerpichi provato da gelo e fame, ma più che del conquistatore, devi avere piuttosto la predisposizione d’animo di chi chiede permesso, e a ogni passo avere prova tangibile che la tua richiesta sia ben accetta agli dèi e agli uomini. Vero pure che questo sentimento, questa inclinazione d’animo deve accompagnarsi con una determinazione che ti permetta di superare le crisi, i momenti difficili, o addirittura tragici. Ma dimenticarsi di questo doppio legame che ci vincola alle pareti che affrontiamo, vorrebbe dire fare il primo passo verso il fallimento […]”: scriveva così Daniele – anzi, scrivevamo insieme! – in quel libro ingenuo e vivido, In vetta al mondo, che è la sua prima autobiografia e che avevamo pubblicato nella primavera del 2013, e poi rieditato un paio di annate dopo. Ebbene, il tempo cambia gli uomini e gli amici, così come stava capitando anche a noi due, che ormai ci conoscevano dall’autunno del 2010, quando lo avevo intervistato la prima volta a Radio24; ma quel modo di avvicinarsi ala montagna, quel rispetto autorevole, quel senso del limite e del confronto dialettico con ghiaccio e roccia, ecco quello mai era cambiato in Daniele. Tra la vetta e la vita, insomma, la scelta era sempre per quest’ultima. Non bastassero le parole d’amico, a testimoniarlo c’è la nuda cronaca: basti pensare alla rinuncia di quella tanto agognata vetta del Nanga Parbat, nell’inverno 2014-15, a qualche centinaio di metri dall’obiettivo, per salvare la vita ad Alì Sadpara, l’alpinista pakistano allora colto da malore e in queste settimane impegnato nelle sue ricerche, così come quell’Alex Txikon allora terzo componente della spedizione e adesso protagonista dei vani tentativi di ritrovare Daniele e Tom ancora in vita.
Ci arriveranno in cima l’anno dopo, Alì e Alex, insieme a Simone Moro (mentre solo un malore fermerà Tamara Lunger a poco dalla cima). Non Daniele, che nel frattempo era già rientrato in Italia. Una delusione che Daniele aveva saputo trasformare in nuova energia per i suoi tanti progetti: prima la famiglia, con la moglie Daniela e il figlioletto Mattia, di appena sei mesi; poi il ruolo di ambasciatore dell’Alta Bandiera dei Diritti Umani (un vessillo che insieme avevamo portato sulle cime della Grande Guerra in occasione del Centenario del primo conflitto mondiale, ricorrenza dai cui era nato un altro libro insieme); un progetto dedicato alla formazione; e poi ancora la montagna, il Nanga e lo Sperone Mummery.
Cinque Ottomila scalati in carriera, la vittoria del premio Paolo Consiglio, la candidatura al Piolet d’Or per le vie nuove aperte in Pakistan e sul Monte Rosa. A completare il curriculum d’onore di Daniele Nardi, proprio la non comune conoscenza di quella via, di quello Sperone.
Daniele non ha mai evitato una puntuale analisi sulla pericolosità di quel punto specifico del Nanga, e ricordiamo che su quello stesso Sperone, toccò nel 2013 quota 6400 insieme a Elisabeth Revol (giunta poi in vetta lo scorso inverno nella tragica spedizione in cui morì Tomek Mackiewicz, con Daniele fra i più attivi nell’organizzare i soccorsi e nel 2015 raggiunse i 6200m in solitario.
In molti, ora, si sono stretti con un abbraccio infinito intorno a te, Daniela, Mattia, tutta la tua famiglia, i tuoi cari.
E se da giorni non riesco a dimenticare quella foto che vi ritrae, tu e Tom, sdraiati lassù, inerti come marionette rotte, a lenire il mio dolore che solo la consapevolezza che abbracci ora quelle rocce e quei ghiacci in cui si rivelava la tua natura più profonda, più intima e vera. Del resto, lo avevi scritto proprio tu, in quelle pagine fresche e ingenue: ”C’è un bisogno d’Assoluto che mi spinge a fare quello che faccio; c’è anzi la convinzione che un Assoluto esista, da qualche parte, magari solo un po’ più su di dove io riesco ad arrivare con le mie forze, al di sopra di nuvole e venti. Ma quel che sento, quando salgo per quelle pendici, non è tanto il Giudizio, ma l’Armonia, la libera Armonia con tutto ciò che mi circonda, e in fondo, con me stesso. Conquistare una montagna è anche, per me, conquistare quest’Armonia. Di più. Forse soltanto attraverso la montagna riesco ad arrivare all’Armonia con me stesso e con tutte le cose”.
Quasi le avevo dimenticate, queste tue parole, stordito e attonito da tanto dolore.
O forse incantato nel cercare, ancora una volta, le tue mani che disegnano spazi infiniti verso il cielo.
Dario Ricci